Alla fine, il cosiddetto decreto sicurezza è stato approvato. È il momento di rovesciare la gabbia di paura che hanno costruito per provare ad isolare chi lotta, per terrorizzare sfruttate e oppresse. Perché questo è il senso dell’ennesimo atto autoritario del governo, stringere le maglie della gabbia legale all’interno della quale è lecito protestare, in modo che attuare forme di lotta efficaci e incisive sia sempre più difficile. L’ampia mobilitazione degli ultimi mesi contro il nuovo provvedimento è un importante segnale che mostra come stia maturando una opposizione chiara alle politiche repressive che in questo paese sono applicate da 15 anni a forza di decreti. È da questa base che bisogna partire per spazzare via la paura, difendere i movimenti, rovesciare la cappa autoritaria che il governo sta imponendo sulla società.
Negli scorsi mesi già diversi contributi su queste pagine hanno preso in esame il provvedimento del governo, evidenziandone gli elementi principali. Ricordiamo solo alcuni dei più importanti:
Due nuovi reati che possiamo definire di opinione, dal momento che riguardano la detenzione e la diffusione di materiali informativi, sono previsti dall’articolo 1: «Detenzione di materiale con finalità di terrorismo», che prevede la reclusione da 2 a 6 anni, mentre la diffusione anche online di istruzioni per atti violenti o sabotaggi è punita da due a quattro anni. All’articolo 9 si estende a 10 – finora erano 3 – il numero di anni entro i quali – in caso di condanna per terrorismo – può essere revocata la cittadinanza acquisita. All’articolo 10 è introdotto il nuovo reato di «Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui» punito con la reclusione da 2 a 7 anni. Pene anche per chi coopera. L’articolo 11 istituisce una nuova aggravante per un’ampia varietà di reati “contro la vita e l’incolumità pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio” in cui si incorre se il reato è commesso all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane. All’articolo 12 è definita una nuova aggravante al reato di danneggiamento, per fatti avvenuti durante le manifestazioni. L’articolo 14 crea la nuova fattispecie di blocco stradale che trasforma un illecito amministrativo in reato penale: fino a 2 anni di carcere se il fatto è commesso da più persone.
Agli articoli 19, 20, 21, 22, 23, 28 e 31 si introducono nuove tutele per il personale militare, delle forze dell’ordine e dei servizi segreti: aumento delle pene per i reati di resistenza, violenza e minacce nei confronti di personale di polizia; per chi provoca lesioni a un agente di polizia nell’esercizio delle sue funzioni è prevista la reclusione da 2 a 16 anni a seconda della gravità. All’articolo 19 è prevista anche una nuova aggravante in cui si incorre se l’atto è compiuto al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica. Mentre gli articoli 28 e 31 prevedono rispettivamente che gli agenti di polizia possano portare senza licenza, fuori servizio, armi diverse da quelle di ordinanza e che ci siano garanzie di impunità per gli agenti dei servizi segreti infiltrati. Con l’articolo 24 sono previste aggravanti per l’occupazione di «mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione a cui il bene appartiene». Nuove fattispecie di reato sono previste dagli articoli 26 e 27 che introducono il reato di rivolta in carcere e quello di rivolta nei Cpr; sono considerate rivolta anche “le condotte di resistenza passiva che […] impediscono il compimento di atti d’ufficio o di servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Chi partecipa alle rivolte rischia una pena da 1 a 5 anni, gli organizzatori sono punibili con pene da 2 a 8 anni. Ma a seconda della gravità e delle conseguenze della rivolta, la pena può arrivare fino a 20 anni. L’articolo 26 prevede anche una aggravante del reato di “istigazione a disobbedire alle leggi” se il fatto avviene all’interno del carcere o tramite scritti o comunicazioni rivolte a detenuti.
Questo e molto altro è diventato legge con l’approvazione alla Camera il 29 maggio e quella al Senato il 4 giugno del decreto-legge n. 48, deliberato dal governo lo scorso 11 aprile per imporre la rapida approvazione delle nuove norme contenute nell’originario disegno di legge ex1660, inizialmente presentato nel gennaio 2024.
Le opposizioni in parlamento hanno gridato allo scandalo per la decisione del governo di far passare come decreto un provvedimento per cui era stato scelto il percorso del disegno di legge. Certo l’iniziativa del governo ha forzato le normali procedure per arrivare alla rapida approvazione di un provvedimento fortemente repressivo. Esponenti del governo hanno arrogantemente rivendicato questa scelta affermando che proseguire il dibattito parlamentare era inutile dal momento che il decreto già assumeva, a loro dire, alcuni dei rilievi delle opposizioni. Nella realtà ben poco è stato smussato. Rispetto alla iniziale versione del disegno di legge, presentata ormai due anni fa, l’impianto è rimasto sostanzialmente intatto. Ma quei partiti parlamentari che oggi criticano il governo sono gli stessi che non solo hanno sempre utilizzato come il governo attuale la legislazione per decreto, ma hanno anch’essi emanato provvedimenti repressivi che sono anche alla base delle nuove norme emanate dal governo, basti pensare all’istituzione dei CPR.
L’attuale decreto sicurezza è solo l’ultima tappa di una serie di provvedimenti che hanno ristretto negli ultimi anni l’agibilità politica e i margini per praticare forme di resistenza nella società.
Quanto sia ridotta ormai su questi temi, almeno nell’impostazione di fondo, la distanza tra chi è al governo e chi siede all’opposizione in parlamento è chiaro dal fatto che la critica dell’opposizione istituzionale in genere non è mai diretta contro l’impostazione generale dei provvedimenti del governo. La critica si è concentrata su poche singole questioni, come il blocco stradale, la resistenza passiva, la carcerazione delle madri. Ma in genere l’opposizione ha adoperato una retorica ormai trita e ritrita, che spesso trova eco anche in settori che dovrebbero essere più radicali, che presenta i provvedimenti repressivi come estemporanei, raffazzonati, come spot elettorali. Tuttavia, per quanto possano essere utilizzati nella campagna elettorale, queste non possono essere ridotte a iniziative propagandistiche, hanno effetti concreti sulla vita delle persone e sull’agibilità dei movimenti.
Un esempio chiaro è stato dato in occasione delle manifestazioni in solidarietà alla Palestina dello scorso 5 ottobre a Roma e dello scorso 12 aprile a Milano. Ed è chiaro che in un contesto di preparazione alla guerra questo provvedimento – che punisce in maniera precisa atti di sabotaggio, resistenza passiva, rivolte nei centri detentivi, blocchi delle infrastrutture – serve a permettere di attuare una sorta di legge marziale contro i “vili” che vogliono fermare la macchina della guerra. In uno stato di guerra non dichiarato il confine tra guerra interna e guerra esterna è ormai quasi del tutto svanito. Per questo il Quirinale ha sostenuto l’emanazione del decreto.
Il decreto ridefinisce i confini della protesta legale, e innalza le pene per reati in cui comunemente incorrono militanti politici e sindacali e chi in genere partecipa a lotte sociali e movimenti. Questo può avere una serie di conseguenze. Sicuramente porterà a ripensare alcune pratiche, ma anche a ridefinire equilibri e rapporti tra diversi gruppi e organizzazioni che possono avere approcci diversi alla nuova situazione. Ma non bisogna cedere alla paura, alla rinuncia, alla rassegnazione.
Non c’è mai stato in questi anni un movimento così largo su questi temi. Ci sono stati i “pacchetti sicurezza” di Maroni del 2008 e 2009, i decreti sicurezza del 2017 firmati PD, e che portano i nomi di Minniti e Orlando, i decreti firmati da Salvini nel 2018 e nel 2019 durante il governo Lega-M5S. In nessuna di queste occasioni si era creata una larga opposizione sociale ai provvedimenti repressivi. Dopo la scorsa estate invece, per opporsi a quello che era il DDL 1660 sono nate una varietà di iniziative e campagne di respiro nazionale e locale su spinta di alcuni settori del sindacalismo di base, con un generale coinvolgimento di reti e organizzazioni della sinistra radicale, centri sociali, gruppi anarchici. Non senza limiti e contraddizioni e certo con un grandissimo ritardo, questa variegata campagna è diventata un movimento, le cui istanze hanno trovato spazio nella società riuscendo a catalizzare il malcontento contro il governo anche su questo terreno.
La repressione è diventata così, almeno in parte, una questione di massa. È chiaro a una parte di società che le nuove norme sono ingiuste, è il momento di portare questa consapevolezza nelle pratiche quotidiane, nelle lotte sociali, per far sì che le nuove norme non possano essere applicate. La diffusa opposizione al decreto deve trasformarsi in violazione di massa delle nuove norme. Solo i movimenti di massa possono aprire spazi di libertà per tuttx forzando le leggi repressive. Chiudersi ora nei margini legali o pensare ad uno slancio di avanguardia, come nell’ottica del tanto peggio tanto meglio, sono due atteggiamenti che possono permettere comunque alla nuova legislazione di consolidarsi.
Trasformare l’opposizione al decreto in pratica di rottura non è facile. L’importante è fare sì che questo sia possibile, portando nei movimenti il metodo anarchico e l’azione diretta, impegnandosi affinché le pratiche di piazza non siano gestite esclusivamente dai gruppi organizzati, perché il conflitto non diventi un fine o, peggio, una rappresentazione, affinché si sviluppi una discussione aperta, orizzontale, basata sulla consapevolezza dei rischi e la condivisione delle diverse pratiche, in una prospettiva che permetta la creazione di forme di mutuo appoggio. Gli spazi di libertà, l’agibilità di movimento va costruita e difesa giorno dopo giorno nelle strade e nelle piazze con decisione.
D.A.